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Vita e morte con l'accabadora

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Nel folklore sardo quella della femmina accabadora è una delle figure più inquietanti.

Il nome, letteralmente, vuol dire colei che finisce, perché in sardo "s'acabbu" è la fine. L'accabadora aveva un grave compito: su richiesta dei familiari o della stessa vittima praticava l'eutanasia su un malato terminale, quale che fosse la sua età. Il fenomeno, in particolare, avrebbe riguardato le regioni isolane del Marghine, Planargia e Gallura.

Bisogna qui premettere che sull'esistenza delle accabadore non c'è accordo sul piano scientifico: secondo alcuni antropologi la loro esistenza è una favola che non trova riscontro nella realtà, mentre secondo altri accabadore hanno operato fino a metà del Novecento.

L'accabadora svolgeva gratuitamente il suo servizio: pagare per dare la morte sarebbe stato un atto contrario alla religione e alla superstizione. Interveniva per mettere fine all'esistenza di persone incurabili, in zone in cui non esisteva assistenza medica, in famiglie molto povere che non erano in grado di assistere il malato.

La basilica di San Simplicio a Olbia, nella terra delle accabadore

Si pensava inoltre che un'agonia dolorosa e prolungata potesse essere conseguenza di cattive azioni: tra esse la violazione di norme tipiche della civiltà contadina, come la sottrazione di strumenti agricoli o anche lo spostamento dei confini dei campi, e nei santuari, il furto della cera per le candele e dell'olio per i lumini.

A proposito della valenza quasi magica degli attrezzi agricoli, a Samugheo (provincia di Oristano) si racconta di un uomo che rubò al vicino una zappa e un marra (strumento simile alla zappa) che servivano per lavorare la vigna. Quando la suocera seppe del furto disse: «Ai chi che dd'ai furare, chi dolo prangat in sua morte» (Giacché li ha rubati, che possa espiare il furto durante la morte). Alcuni anni dopo l'uomo entrò in agonia, e vi rimase parecchi giorni, fino a quando non gli fu messo vicino al capezzale una marra uguale a quella rubata: finalmente si calmò e morì.

Si racconta che l'accabadora entrasse nella camera del morente vestita di nero, col volto velato, e che compisse la sua opera usando un bastone di legno d'ulivo (su mazzolu) con cui colpiva al capo la vittima, oppure con un cuscino con cui la soffocava. Un esemplare di "mazzolu", forse l'unico esistente ancora, è esposto nel museo etnografico di Luras, ed è frutto della paziente ricerca di Pier Giacomo Pala, il quale racconta: «Era il 1981, l'accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era stato la sua casa. Un vecchio mi aveva parlato di quella donna, ma non ne ricordava il nome. Allora io ho fatto tutte le ricerche possibili, e alla fine ho capito di chi si trattava».

Il mazzuolo dell'accabadora

Secondo altri autori, al posto del bastone veniva usato un giogo in miniatura.

La presenza di questo oggetto non è casuale. Era una pratica diffusa procurarsi una buona morte mettendo sotto il capezzale un modellino di giogo. Ma l'oggetto, perché avesse efficacia, doveva essere stato intagliato in un momento e in un luogo particolari: in chiesa, il giorno della Domenica delle Palme, durante la lettura della Passione di Cristo.

Della sacralità del giogo tratta anche una ricerca effettuata nel 1981 a Siniscola, in provincia di Nuoro: «Il giogo, "su iuale" era considerato un oggetto sacro. Si diceva che un uomo che buttava o bruciava il legno che era appartenuto a un giogo, al momento della morte soffriva molto ed aveva agonia lunga. Ancora oggi molte persone se si imbattono in un giogo buttato in campagna non lo toccano per paura di commettere sacrilegio».

Nelle civiltà contadine il giogo aveva una funzione rituale

Prima dell'arrivo dell'accabadora, dalla stanza venivano rimossi tutti gli oggetti cui il morente era affezionato e gli oggetti sacri: in questo modo si credeva che il distacco dello spirito dal corpo sarebbe stato meno doloroso.

Quello dell'accabadora non era considerato un assassinio: al contrario la comunità, della famiglia o del paese, lo considerava come il gesto amorevole e pietoso di chi accompagna verso la fine una vita divenuta troppo dolorosa. In quest'ottica l'accabadora veniva considerata come una sorta di ultima madre. Secondo certi autori, inoltre, le accabadore avevano anche il compito di levatrici , riunendo così nella stessa figura il ruolo di chi dà la vita e di chi dà la morte.