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A Staglieno la tomba di Caterina

"Quale era l’idea che gli antichi Romani si erano fatta dell’Aldilà? Più che avere una... idea propria, c’è da dire che acquisirono quasi in blocco la visione greca: e anche in questo caso è vero che se furono i Romani a conquistare la Grecia, furono i Greci a civilizzare Roma. Le divinità sono le stesse, anche se cambiano i nomi: e altrettanto vale per la “geografia” dell’oltretomba.

A governare il regno dei morti è Plutone che, a dispetto della sua collocazione, veniva considerato dai Romani come una divinità benevola e generosa. Con la sua sposa Proserpina regna sull’Averno, cui si può accedere ad diversi passaggi, uno dei quali nei pressi dell’omonimo lago che si trova in Campania.
Molto importante era però anche la figura dell’Orcus, probabilmente derivata da una divinità infernale degli Etruschi: era una divinità popolare che col tempo, a Roma, finì con l’essere sovrapposta e identificata con Plutone. E sono qui anche le radici dell’orco delle favole, che spaventa e rapisce.
Il compito di assistere il morente e di raccoglierne l’ultimo respiro era affidato al “pater familias”, il maschio più anziano e autorevole della casa. Se il defunto era una persona comune, delle sue esequie si occupavano i famigliari. Se invece si trattava di una persona particolarmente in vista, il compito veniva affidato ai “libitinarii”, vale a dire ai predecessori delle attuali imprese di onoranze funebri. Erano loro a preparare la salma e poi a curarne il funerale. Il trasferimento della salma al cimitero avveniva in un corteo, al quale intervenivano i famigliari e i conoscenti, ma anche lamentatrici professioniste (prefiche), mimi, musici e danzatori. La salma veniva inumata oppure, come accadeva più spesso, cremata: le ceneri venivano raccolte in un’urna, destinata a una nicchia in una tomba collettiva detta “colombarium”. Nei nove giorni che seguivano al rito funebre la casa del defunto era da considerarsi contaminata (“funesta”, da “funus”, funerale): per rendere evidente questa condizione la facciata veniva ornata con rami di cipresso e di tasso. Trascorsi i nove giorni si serviva una cena in memoria del defunto, e poi si lavavano e spazzavano le stanze con l’intenzione di cancellare presenze residue di chi se n’era andato per sempre.

Nella concezione romana, il rito della sepoltura serviva sia al trapassato per accedere all’aldilà e rimanervi in pace, sia a impedire al suo spirito di ritornare tra i vivi per perseguitarli. La posa della pietra tombale aveva perciò questo scopo: chiudere un passaggio alle anime che, comunque, avrebbero avuto per sempre nostalgia della vita. Le lastre tombali, per la natura del materiale con cui sono costruite, sono perciò tra i reperti di epoca romana più numerosi e diffusi. Dal momento che, oltre al nome del defunto, spesso portavano una epigrafe che ne ricordava le gesta o ne lodava le virtù, sono anche preziosi oggetti di studio per gli archeologi. Al tempo stesso, però, sono delle testimonianze toccanti di affetto, nei confronti per chi ha lasciato per sempre il mondo dei vivi.

"Visitare un cimitero monumentale con lo stesso spirito con cui si entra in un museo o si ascolta una lezione di sociologia? E’ possibile, per leggere in filigrana, oltre all’evoluzione dei gusti artistici, anche il mutare della concezione nei confronti del destino ultimo dell’esistenza. Ogni cimitero storico consente questo itinerario, questo doppio approccio. Per dimostrarlo, prendiamo come esempio uno dei cimiteri più famosi d’Italia, quello genovese di Staglieno: è il più importante dei 35 cimiteri del capoluogo ligure, con oltre due milioni di sepolture. Venne inaugurato nel 1851 e, da allora, si è arricchito di monumenti che, tra gli altri, affascinarono Mark Twain, Nietzesche, Maupassant ed Elisabetta d’Austria, la famosa imperatrice Sissi: Ernest Hemingway lo definì “una delle meraviglie del mondo”. Vi sono sepolti numerosi personaggi illustri: tra essi Giuseppe Mazzini, Nino Bixio, l’attore Gilberto Govi e il cantautore Fabrizio De Andrè.

A Staglieno si possono individuare numerosi filoni artistici, a partire dal classicismo (seconda metà dell’Ottocento) che è caratterizzato da figure quali i Geni custodi della tomba, virtù e allegorie classiche (clessidre, colonne spezzate, ecc.) oppure simboli cristiani. Alla generica figura del dolente, inoltre, spesso si sostituisce quella del congiunto che piange il proprio caro. Il filone del romanticismo (1850-1875) invece, è caratterizzato da rappresentazioni più naturali, talvolta soffuse da un alone di mistero. Con l’avvento del realismo (dal 1865 in poi), però, al predominio delle emozioni si sostituisce la verità, senza la mediazione dei simboli. Nei gruppi del compianto, i vari personaggi vengono resi con dovizia di particolari sia nelle espressioni dei volti, sia nelle acconciature o negli abiti. Un esempio è la tomba Gallino, scolpita da Giacomo Moreno nel 1894, con la bambina che viene portata a porgere un ultimo bacio al volto della defunta.

Dal 1880 in poi, però, accanto al perdurante realismo borghese andarono affermandosi i filoni del simbolismo e del Liberty. E’ l’incontro tra Amore e Morte, tra sensualità e mistero, che si concretizza soprattutto nella figura dell’Angelo, sempre meno immagine dell’Aldilà cristiano e sempre più custode della morte e del suo mistero. A Staglieno c’è però una statua che, per molti, basta a giustificare la visita dell’antico cimitero.
La statua in questione è quella di Caterina Campodonico, la venditrice di noccioline, detta Catainin dae reste.
Nacque sotto la Lanterna nel 1804: era una popolana semplice, semianalfabeta, “merciaia ambulante” di mestiere. Percorreva infatti la Liguria e il Basso Piemonte per vendere le collane di nocciole, biscotti, canestrelli e amaretti che confezionava con le proprie mani. Sebbene le reste fossero considerate un portafortuna per i fidanzati, come augurio di un felice matrimonio, Caterina non fu però fortunata in amore.

Si sposò giovanissima con un certo Giovanni Carpi, fannullone e alcolizzato: per separarsene fu costretta a versargli ben 3000 franchi (allora una cifra molto elevata) per “buonuscita e mantenimento”.
Né fu più fortunata sul fronte degli affetti famigliari: le sue sorelle, e i numerosi nipoti, si rivolgevano continuamente alla “zia ricca” per battere cassa. Ma sulle origini di quella ricchezza erano pronti a malignare: dal momento che Caterina era sempre in viaggio, e aveva a che fare con colleghi in prevalenza uomini, dai parenti arrivava l’insinuazione che la donna non vendesse soltanto i suoi dolci.

Tuttavia, quando nel 1880 la commerciante si ammalò gravemente, tutti gli aspiranti eredi si diedero appuntamento al suo capezzale, litigando ferocemente con lei ancora viva per spartirsene gli averi.
Ma Caterina guarì e, una volta ristabilita, per prima cosa si rivolse allo scultore Lorenzo Orengo affinché la ritraesse in una statua da esporre a Staglieno: una statua in cui lei comparisse con gli strumenti con cui si guadagnava la vita, cioè le noccioline e le ciambelle. La statua venne collocata nel cimitero nel 1881, corredata da alcuni versi del poeta dialettale genovese Giambattista Vigo. Della vicenda parlarono i giornali, e la Caterina in carne e ossa non si faceva pregare per posare al fianco della sua marmorea gemella. L’entusiasmo popolare sfiorò l’assurdo: di fronte al simulacro c’erano in continuazione fiori e lumini, tanto che le autorità civili ed ecclesiastiche si schierarono a difesa della sacralità di Staglieno.
Caterina morì il 7 luglio 1882, e al suo funerale partecipò una folla immensa. Alcune donne giocarono al Lotto i numeri collegati al suo decesso, e vinsero. Da allora, oltre ai curiosi e agli amanti dell’arte, il monumento è meta di chi, tra i giocatori d’azzardo, spera che Catainin possa intercedere per loro al tavolo verde."