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"Il principe carlo mi voleva uccidere"

Tra le tante teorie del complotto che ruotano intorno al tragico incidente in cui il 31 agosto 1997 morì lady Diana (che il 1° luglio 2021 avrebbe compiuto sessant'anni) c'è anche una lettera datata 1995, scritta al suo maggiordomo Paul Burrell, in cui la principessa accusa il marito, il principe Carlo, di volerla uccidere .

Questo il passaggio critico: «Sono seduta qui, al mio tavolo, oggi, in ottobre, con il desiderio che qualcuno mi abbracci e mi incoraggi a essere forte, ad andare avanti a testa alta. Questa particolare fase della mia vita è la più pericolosa... Mio marito sta pianificando un incidente nella mia macchina, un guasto ai freni per causare un grave trauma cranico».

Il "matrimonio del secolo" tra Carlo e Diana

Si tratta di parole particolarmente inquietanti, perché prefigurano ciò che sarebbe successo due anni dopo a Parigi, nel tunnel dell'Alma .

La lettera, di cui si sa dal 2003, non è però una pistola fumante , cioè una prova senza dubbi per accusare l' erede al trono della Gran Bretagna. Ma non era nemmeno un elemento da trascurare.

Il segreto è stato svelato solo adesso, grazie a un rapporto che rivela le fasi dell'indagine del 2004, chiamata Operazione Paget , che aveva lo scopo di verificare le teorie più o meno complottiste sulla morte di lady Diana.

Dapprima gli investigatori avevano sondato l'ambiente intorno alla Royal Family . E poi, in un secondo momento, avevano contattato il principe Carlo , per un evento senza precedenti: nella storia britannica non era infatti mai successo che la polizia interrogasse l'erede al trono avendo come sospetto che potesse essere il mandante nella morte dell'ex moglie.

Un tappeto di fiori di fronte a Buckingham Palace, l'indomani della morte di Diana

L'interrogatorio si svolse all'ora del tè, il 6 dicembre 2005, in un salotto privato al primo piano di St. James's Palace, nel più totale riserbo. Le risposte di Carlo furono convincenti, tanto che l'"Operazione Paget" si concluse con la certezza che lo scenario prefigurato dalla lettera di Diana non fosse attendibile e, anzi, provocato da una crescente situazione di paranoia .

Una prova del crescente disagio della principessa era stata la notissima intervista rilasciata al giornalista Martin Bashir , che la BBC trasmise il 20 novembre 1995. Di fronte alle telecamere Diana pronunciò la celebre frase «Eravamo in tre in questo matrimonio, un po' troppo affollato». Il divorzio da Carlo arrivò poi il 28 agosto 1996.

E' però di poche settimane fa la notizia che la celebre intervista venne ottenuta con metodi disonesti . E' il risultato di un'inchiesta commissionata dalla BBC nel 2020, in seguito ad alcune dichiarazioni del fratello di Diana Charles Spencer: aveva accusato Bashir di avere utilizzato documenti falsi per convincere la principessa a concedere l'intervista.

Bashir avrebbe infatti prodotto dei documenti bancari falsi, per convincere la principessa che tra i suoi collaboratori esistesse una talpa che forniva ai tabloid informazioni riservate . Tim Davie, direttore generale della BBC, si è scusato a nome dell'azienda per il comportamento tenuto all'epoca da Bashir: «La BBC si sarebbe dovuta impegnare di più per capire fino in fondo quanto fosse successo all'epoca e avrebbe dovuto impedire che l'intervista fosse concessa in quel modo».

Il giornalista si è in seguito scusato per aver falsificato i documenti, ma ha affermato si sentirsi comunque fiero dell'intervista , il cui contenuto non sarebbe stato alterato dai falsi.

La vignetta del Times sulla celebre intervista di Diana alla BBC

In merito alla vicenda il Times ha pubblicato una vignetta in cui, mentre è di fronte a Diana, il giornalista pensa: «Siamo in tre in questa intervista: Diana, io e un mucchio di falsità».

Considerandola a posteriori, c'è molta amarezza nella storia della principessa triste : una vicenda che inizia con un matrimonio che non si sarebbe dovuto celebrare, prosegue con molti inganni e termina con un epilogo tragico, che ha rattristato tutto il mondo e ancora oggi non è stato dimenticato.